Franco Cerri

A Stazione Birra va in scena la storia del novecento musicale

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Uno dei più bei locali dell’ambiente romano apre le sue porte al jazz. Alla Stazione Birra di Ciampino la sensibilità e l’intelligenza dei gestori ci regalano una serata straordinaria: autentiche colonne del nostro patrimonio musicale, insieme per riproporre l’eterno incanto dello swing e dell’estro improvvisativo. Tra queste il ruolo di leader spetta al più vissuto, al più solare tra loro: Franco Cerri, classe 1926, chitarrista (e contrabassista!) cui la sorte e il merito hanno concesso di suonare dentro la storia del novecento musicale: Gorni Kramer, Dizzy Gillespie, Django Reinhardt, Chet Baker, Jim Hall, e tutti gli artisti del panorama italiano, da Gianni Basso, Bruno De Filippi, il Quartetto Cetra a Giorgio Gaber, Milva, Mario Gangi.

 

 

 

Franco Cerri

A Stazione Birra va in scena la storia del novecento musicale

Uno dei più bei locali dell’ambiente romano apre le sue porte al jazz. Alla Stazione Birra di Ciampino la sensibilità e l’intelligenza dei gestori ci regalano una serata straordinaria: autentiche colonne del nostro patrimonio musicale, insieme per riproporre l’eterno incanto dello swing e dell’estro improvvisativo. Tra queste il ruolo di leader spetta al più vissuto, al più solare tra loro: Franco Cerri, classe 1926, chitarrista (e contrabassista!) cui la sorte e il merito hanno concesso di suonare dentro la storia del novecento musicale: Gorni Kramer, Dizzy Gillespie, Django Reinhardt, Chet Baker, Jim Hall, e tutti gli artisti del panorama italiano, da Gianni Basso, Bruno De Filippi, il Quartetto Cetra a Giorgio Gaber, Milva, Mario Gangi.FrancoCerri_2010_superiore
Accanto a lui Giorgio Rosciglione al contrabasso, cuore siciliano, un musicista capace di muoversi dalle radici classiche alle fioriture del jazz, dal calore della bossanova a quello del motore della sua storica Alfa Romeo da rally. Un musicista che, come Cerri, ha avuto la possibilità di attraversare la storia della musica jazz degli ultimi quaranta anni, da Benny Golson a Lee Konitz, da George Coleman a Oscar Valdambrini. Membro dell’Orchestra della Rai, formazione che ha segnato la storia della musica italiana, affronta da anni anche l’impegno di docente.
Con loro Gegè Munari, musicista dalla nascita, batterista simbolo, cuore pulsante di tante formazioni, collaudato compagno di avventure per i primi due. E poi i più giovani: Antonello Crescenzi al pianoforte, artista poliedrico e cuore organizzativo di tanti eventi, Michele Ariodante, diplomato in chitarra classica ma una vita per il jazz che rappresentano la struttura armonica sulla quale navigherà la chitarra di Franco Cerri.

Roma ha deciso di accogliere bene l’ospite milanese dal sorriso aperto e dai modi gentili, il cielo è stellato e l’aria fresca e piacevole a conclusione di una giornata di sole. Avvicinandosi a Ciampino si avverte proprio un “friccicore ar core”, fatto di profumi serali e di ricordi che il solo nome di Cerri ha già saputo evocare.

Il pianoforte di Crescenzi apre la serata con una interpretazione di “Georgia on my mind”, cui segue un inaspettato rock’n’roll in quartetto: e il ricordo comincia a prendere forma. Completo chiaro, cravatta… sorridente come sempre, Cerri fa il suo ingresso. È l’immagine del musicista professionale al quale spesso si guarda forse con ironia, ma che nel suo caso ci appare del tutto naturale. Sappiamo che è il modo di manifestare il sincero rispetto verso il pubblico con cui sa di condividere i propri amori. Il segno di un sentimento intimo più che di una formalità esteriore.
Sul palco legge un testo di Platone sulla musica, definita “legge morale”. Saluta gli amici che ha riconosciuto in platea e, dovendo togliersi l’imbarazzo di essere al centro dell’attenzione, chiede ad alta voce: “Ma non avevate di meglio da fare stasera?!”. Ride di se stesso. Impareggiabile Cerri.

Si siede, imbraccia lo strumento e ci regala le prime sequenze di accordi di “The girl of Ipanema”. Ormai non sento più freni, il ricordo si confonde col sentimento del presente. Il tema viene alternato col pianoforte, armonia e melodia vengono rispettate. Cerri ci propone tutto il repertorio della chitarra jazz: single notes, sequenze di accordi, ottave. Si può lasciare riconoscibile il brano senza paura di apparire banali, sembra dirci la sua esecuzione.
Sul brano successivo, “Fine and Dandy”, torna sul palco Ariodante. Il brano è un arrangiamento piuttosto moderno di un pezzo degli anni venti. L’equilibrio tra i diversi elementi è perfetto. Tre strumenti polifonici rischiano grosso in termini di dinamiche, ritmo e armonia. Ma qui tutto fila liscio, le figure ritmiche, gli impianti armonici si sovrappongono in fluido interplay e le dinamiche coincidono sincroniche.
A fondo palco Munari e Rosciglione sono spettacolari per la loro misura, per come riescono a variare i ritmi senza creare inciampi. Il ricordo di Django Reinhardt e delle sue formazioni induce la domanda del perché suonare con due chitarre, ma alla fine mi rispondo che avrebbe poca importanza saperlo, quello che ascolto funziona benissimo.

Cerri introduce il brano successivo “The day of wine and roses” delineando il contenuto dell’ultimo lavoro in sala di registrazione. Segue un altro brano contenuto nel cd: “But not for me”, eseguito in trio con gli “anziani”. Dopo pochi secondi Cerri si ferma per una nota sbagliata, chiede scusa al pubblico e commenta premuroso: “Capita…”. Riprende, sempre più circondato dalla simpatia del pubblico. Lo guardo mentre batte il piede sinistro, lo strumento appoggiato sulla gamba destra. Diritto, con appena il collo piegato verso la tastiera. Vedo ciò che a parole è riportato nello storico corso per chitarra, che mi sono portato dietro: “Sedere, in posizione eretta… tenere il braccio sinistro il più possibile parallelo al corpo sollevando il solo avambraccio”. È la posizione che sto osservando ora nell’84enne coautore di quelle note.
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Il brano successivo appare difficile da riconoscere. È un ritmo lento, con un sottile moto latino. Alla fine però il tema si rivela essere “Brazil”, eseguito assai lento, ricco di ritardi e di armonizzazioni, reso più intimo. Colpisce al cuore e senza scrupoli Cerri. Si alza dalla sedia e resta in disparte mentre gli altri eseguono “Stompin’ at the Savoy”. “Avrà almeno 200 anni, forse meno.” scherza.
Classicità del jazz: conosciamo i temi, le dinamiche, eppure siamo sempre lì a pretendere di riascoltarli, riviverli.
“All the things you are” viene proposta in duo di chitarre. Stavolta il tema è meno riconoscibile, con ritmi spezzati, continue variazioni melodiche. Il plettro di Cerri e le dita di Ariodante si inseguono e si confondono. I timbri caldi delle due chitarre e l’incalzare dello swing ci restituiscono quella gradevole inquietudine che è propria del jazz.
La serata si conclude con un corale “Take the A train”. Alla fine il pubblico manifesta il proprio consenso. Cerri capisce e dal microfono saluta così: “Non conosciamo altri brani (risate) Se a casa sapessero che sono ancora in piedi…Vi ringrazio tutti. Alla prossima”.
Si, alla prossima, dolcissimo maestro.

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